domenica 29 aprile 2012

Alimentazione e Parkinson


Illustrazione di
Gianluigi Marabotti

Il Parkinson è una patologia cronica dovuta alla degenerazione dei neuroni dopaminergici della sostanza nera, una particolare area del sistema nervoso centrale che controlla principalmente i movimenti. Si tratta di una malattia con evoluzione lenta e progressiva, che presenta complicanze motorie (il noto tremore, ad esempio) e non motorie (scialorrea, disfagia, stipsi, ecc).
La terapia d’elezione prevede l’utilizzo di Levodopa, un precursore fisiologico della dopamina che viene rapidamente assorbito a livello intestinale con un meccanismo di trasporto in competizione con altri aminoacidi derivanti da proteine alimentari. Per questo motivo è fondamentale che i pazienti in terapia siano attentamente seguiti a livello alimentare, in modo che non assumano proteine contemporaneamente al farmaco determinando così una competizione per il suo l’assorbimento. Ciò ridurrebbe drasticamente l’efficacia della terapia in quanto la Levodopa non riuscirebbe a raggiungere il cervello, esponendo quindi il paziente al rischio di blocchi motori dopo i pasti.
Altri fattori che possono influenzare l’assorbimento del farmaco sono rappresentati ad esempio dal consumo di pasti molto abbondanti o grassi (viene rallentato lo svuotamento gastrico) e dalla presenza di stipsi.
Oltre ad interagire strettamente con la terapia, indispensabile per migliorare la qualità di vita dei pazienti, l’alimentazione ha anche un ruolo cardine nel mantenere un buono stato nutrizionale in una patologia in cui spesso si assiste a malnutrizione per difetto (spesso dovuto all’elevato dispendio energetico conseguente alla presenza di importanti movimenti involontari) o per eccesso. A tutto ciò contribuiscono anche fattori psicologici come la depressione e la solitudine, che possono determinare una riduzione dell’appetito o l’impossibilità di preparare pasti adeguati. Non per ultimi incidono la difficoltà a deglutire e la lentezza dei movimenti.
L’ intervento nutrizionale di elezione in questi casi è rappresentato da una dieta mediterranea bilanciata, in grado di garantire il giusto apporto calorico e proteico (0,8g di proteine per Kg di peso ideale), con l’attenzione importante di non assumere proteine nella prima parte della giornata, limitandole quindi al solo pasto serale.
Poiché anche i cereali (pane, pasta, ecc.) contengono una quota proteica rilevante, in alcuni casi risulta molto vantaggioso utilizzare prodotti specifici che hanno la caratteristica di avere una buona densità calorica ma meno dell’ 1% di proteine.
In caso di stipsi viene consigliata una adeguata introduzione di acqua (1,5 litri al giorno) e di fibre, attraverso il consumo di frutta, verdure ed eventualmente di probiotici. Se presente anche disfagia dovranno allora essere utilizzati alimenti con consistenza omogenea (ad esempio creme, passati e mousse) oppure modificati con l’aggiunta di addensanti; da evitare la classica pastina in brodo o il minestrone, che rendono ancora più difficile la deglutizione.
Mangiare aproteico non significa mangiare triste. Ecco la dimostrazione:
Linguine al pesto d’ asparagi
Per una persona servono:
100 g di linguine aproteiche
100 g di asparagi
20 g di pinoli
20 g olio extra verdine di oliva
mezzo limone
noce moscata q.b.
sale q.b.
Preparazione:
Pulire e lessare gli asparagi. Mettere da parte le punte mentre la parte tenera del gambo andrà messa nel mixer insieme al succo di mezzo limone e ai pinoli per ottenere una crema liscia ed omogenea.
Nel frattempo cuocere le linguine aproteiche in abbondante acqua bollente. A cottura ultimata unire con il pesto, decorare con le punte tenute da parte e con i pinoli rimasti leggermente tostati e, in fine, spolverizzare con la noce moscata.
Fonte:
Atti del corso di formazione “Il trattamento del paziente di Parkinson oltre la terapia farmacologica” – Brain and Malnutrition – Milano 30 marzo 2012

martedì 24 aprile 2012

Sapori d'oriente: la salsa di soia

Illustrazione di
Gianluigi Marabotti
La salsa di soia o shoyu è un ingrediente tipico della gastronomia asiatica, ottenuto dalla fermentazione della soia e del grano.
Nasce in Cina, ma si diffonde in tutto l’oriente, con consistenza e gusto differenti in base al luogo di produzione. Il tamari, ad esempio, è un tipo di shoyu usato in Giappone che ha la caratteristica di essere privo di glutine e quindi adatto ai celiaci (è consigliabile comunque leggere molto bene le etichette dei prodotti diffusi in Europa in quanto spesso utilizzano in modo improprio il termine tamari e possono contenere ingredienti diversi da quelli tradizionali).
La salsa di soia, quella vera, è tutta naturale. Gli ingredienti sono solo cinque: fagioli di soia, grano, lievito (come fermento viene utilizzato un fungo filamentoso detto Aspergillus oryzae o koji ), sale marino e acqua. La soia, dopo essere stata risciacquata e messa in ammollo, viene cotta in acqua bollente per 4 ore, mentre i chicchi di grano vengono tostati e frantumati in un mulino in modo da aumentare la superficie a disposizione del lievito. Quando la soia è raffreddata alla temperatura di 33°C si unisce al grano e al lievito; le proporzioni di questi tre ingredienti sono cruciali ma sono tenute segrete dalle diverse aziende produttrici. Il tutto viene lasciato in incubazione per circa due giorni all’interno di contenitori di legno, facendo attenzione che la temperatura non aumenti troppo. È noto da secoli che il fattore temperatura è fondamentale per garantire la buona riuscita della fermentazione, ma è grazie alla moderna tecnologia che se ne è scoperta la ragione: mantenere una temperatura al di sotto dei 40°C garantisce la massima produzione di idrolasi extracellulari da parte del fungo. Una indicazione che il procedimento è andato a buon fine si ha quando la superficie della miscela è ricoperta da un sottile strato di muffa bianca senza segni di contaminazioni da altre specie del genere Aspergillus (queste si presenterebbero di colore scuro, verde o nero).
Al termine della fermentazione si aggiunge una salamoia (costituita da sale e acqua) e quindi il tutto è lasciato fermentare all’interno di vecchie botti di legno per 6 – 12 mesi, a seconda dell’intensità del sapore che si vuole ottenere. La miscela così ottenuta, detta miromi, deve essere rimescolata spesso, soprattutto all’inizio, per fare in modo che il lievito resti attivo. L’impasto risultante, dall’aspetto poco gradevole, viene filtrato e il liquido così ottenuto è sottoposto a pastorizzazione. La parte solida rimasta viene in genere utilizzata come mangime per animali.
Il gusto tipico di questa salsa è noto con il termine umami ed è determinato da una serie di composti tra cui l’acido glutammico e l’acido aspartico derivanti dall’idrolisi enzimatica delle proteine della soia e dal glutine del frumento.
Purtroppo oggi in Europa non è infrequente trovare prodotti a basso costo preparati a partire non da soia intera, come vuole la tradizione, ma da proteine idrolizzate con l’aggiunta di caramello per mimare il colore originale.
La salsa di soia è un ottimo insaporitore, da usare comunque con moderazione in quanto molto salata; va aggiunta a fine cottura per preservarne le proprietà e poi deve essere conservata in frigorifero.
Composizione per 100 g di parte edibile:
  • Acqua 71,1 g
  • Proteine 5,2 g
  • Lipidi 0,1 g
  • Glucidi disponibili 7,7 g
  • Fibra alimentare 0,8 g
  • Sodio 5175 mg
  • Potassio 180 mg
  • Fosforo 110 mg
  • Niacina 3,4 mg
  • Energia 53 Kcal
(Articolo scritto per la Scuola di Ancel)

lunedì 23 aprile 2012

ViverSano - Attività fisica, nuovo farmaco

Illustrazione di Gianluigi Marabotti

L’associazione fra sedentarietà e cancro del colon è quella più forte e meglio documentata e può, anche se solo in parte, spiegare la maggior frequenza di questa malattia nelle nazioni industrializzate e nelle aree urbane. 

È ormai noto il potere preventivo dell'attività fisica nei confronti di numerose malattie quali quelle metaboliche, cardiovascolari, articolari e oncologiche. Ma oggi sappiamo di più. L'esercizio fisico è stato eletto a nuovo farmaco, prescritto con precisione in termini di qualità e quantità nel caso in cui le stesse patologie si siano già manifestate.
A tal proposito è opportuno fare chiarezza sui diversi termini, usati spesso come sinonimi, per definire il movimento:
  • l'attività fisica può essere definita come qualsiasi movimento del corpo prodotto dalla contrazione muscolare che aumenti il dispendio energetico;
  • l'esercizio fisico è una sottocategoria di attività fisica di cui viene definita la quantità, l'intensità e la frequenza dei diversi movimenti strutturati in modo ripetitivo per migliorare o mantenere la forma fisica;
  • lo sport è una sottocategoria di esercizio fisico regolamentato e finalizzato alla competizione.
Attualmente sono numerosi i gruppi di ricerca che si occupano di studiare l'associazione tra attività fisica e tumori, non solo dal punto di vista della riabilitazione.
Secondo i dati del Cancer Institute di Boston, sarebbe sufficiente camminare per soli 30 minuti tutti i giorni per ridurre del 15% il rischio di contrarre un tumore al colon.

È comprensibile che lo sport non sia il primo pensiero di un ammalato, ma se le linee di ricerca ad oggi aperte continuano su questa strada, è molto probabile che diverrà parte integrante delle moderne terapie.
Un esempio ci arriva da un grande del ciclismo, Lance Armstrong, al quale fu diagnosticato un tumore del testicolo. Dopo l'operazione e la chemioterapia l'atleta non solo è tornato a gareggiare, ma anche a vincere per ben sette volte consecutive il Tour de France. Ovviamente questo è un caso limite, reso possibile dalle straordinarie doti fisiologiche dell'atleta in questione, ma l'idea di prescrivere un programma di esercizio fisico per rendere più facile il recupero da un intervento e per sopportare meglio le cure chemioterapiche sta rapidamente prendendo piede in numerose strutture di eccellenza.

I vantaggi non sarebbero solo psicologici ma riguarderebbero il miglioramento della forza muscolare, della capacità aerobica e della composizione corporea; inoltre il movimento, fatto secondo precisi criteri, gioverebbe anche alla condizione di fatica cronica che spesso accompagna la chemioterapia.

Il programma ideale di allenamento è basato su un'attività aerobica di media o bassa intensità che tiene conto delle eventuali preferenze della singola persona e del livello di attività fisica “basale”. Per chi parte da una situazione di sedentarietà è buona cosa essere graduali nell'incrementare lo sforzo impiegato ad esempio aumentando la distanza percorsa di poche centinaia di metri per volta.

Certo, un aspetto di cui tenere conto negli studi futuri è quello di ridurre il più possibile l'influenza dell’esposizione ad altri fattori di rischio come la dieta, l'uso di fumo e alcolici e la predisposizione genetica.
Vivere la malattia in modo attivo è più conveniente, da tutti i punti di vista.

(Burnham TR, Wilcox A - Effects of exercise on physiologicaland psychological variables in cancer survivors – Med Sci Sports Exerc. 2002 Dec;34(12):1863-7)

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(Ringrazio la Dott.ssa Tiziana Stallone e Gianluigi Marabotti)

martedì 17 aprile 2012

Il fagiolo azuki

Fagioli azuki - Foto tratta da Wikimedia Commons
Gli azuki (Vigna angularis) sono i semi di una pianta leguminosa (famiglia Fabacee) strettamete affini ai più noti fagioli.
Sono coltivati prevalentemente in Asia, tanto che in Giappone l’azuki è il legume più consumato dopo la soia.
Si presentano solitamente di colore rosso con una tipica striatura bianca, ma è molto diffusa anche una varietà verde nota anche come fagiolo mungo e diffusa in India.
Si trovano tutto l’anno freschi o in scatola. Se si decide per questi ultimi è bene controllare che non contengano coloranti e conservanti; quelli secchi invece, prima del consumo, devono essere messi in ammollo e poi fatti bollire in abbondante acqua per più di un’ora.  La cottura è indispensabile per rendere commestibili i legumi in quanto serve per inattivare, grazie al calore, le lectine (glicoproteine che ostacolano l’assorbimento intestinale di nutrienti) e gli inibitori delle proteasi (proteine che bloccano l’attività di tripsina e chimotripsina).
Una striscia di alga kombu, aggiunta in cottura, è un ottimo alleato in cucina in quanto può aumentare la digeribilità degli azuki ammorbidendone le fibre grazie al contenuto di acido glutammico.
Queste leguminose hanno un elevato contenuto di proteine facilmente digeribili, maggiore di quello dei fagioli, rispetto ai quali danno un po’ meno origine a  fenomeni di gonfiore addominale e meteorismo. Questo fastidioso “effetto collaterale” è dovuto alla presenza di zuccheri quali raffinosio, stachiosio e verbascosio che, data la mancanza nell’intestino umano dell’alfa-galattosidasi, raggiungono inalterati il colon dove subiscono la fermentazione ad opera della flora microbica esistente.
Il loro uso è limitato solo dalla fantasia. Sono utili per zuppe, risotti e dolci. In Oriente infatti sono spesso uniti con dello zucchero per formare una crema alla base di moltissime preparazioni. D’altra parte gli azuki ben si prestano alla pasticceria, con il loro gusto dolciastro simile a quello delle castagne.
Riporto una ricetta di stagione adatta anche per chi segue una dieta vegana e priva di glutine.
Azuki rossi con funghi e cicoria
Per 4 persone servono:
  • 200 g di azuki rossi secchi
  • un cucchiaio colmo di semi di lino
  • 300 g di cicoria
  • 2 spicchi d’aglio
  • 4 cucchiai di vino rosso
  • 150 g di funghi champignon
  • una carota media
  • 3 cucchiai di salsa tamari
  • qualche foglia di basilico
  • un ciuffetto di prezzemolo
  • sale marino integrale q.b.
  • 6 cucchiai di olio extra vergine di oliva.
La preparazione è facile anche se un po’ lunga perché è richiesto l’ammollo degli azuki per 12 ore in modo da disperdere l’acido fitico (l’acqua non va riutilizzata per la cottura). I legumi vanno quindi sciacquati, messi in 1,5 l di acqua fredda e quindi portati ad ebollizione per un’ora e mezzo circa. Fate insaporire per un minuto in 2 cucchiai di olio e aglio la cicoria cotta precedentemente a vapore e tritata grossolanamente; mettetela su un vassoio e cospargetela con i funghi e la carota tagliati finemente disponendo accanto i fagioli. Condite il tutto con una salsa ottenuta mescolando 4 cucchiai di olio e 3 di tamari, spolverizzando con basilico e prezzemolo tritati e con i semi di lino pestati nel mortaio.
Gli azuki fanno senz’altro parte di quei cibi buoni, un po’ insoliti in occidente, ma nutrienti e con molte proprietà positive; uno studio, pubblicato sul Journal of Clinical Biochemistry and Nutrition ne ha analizzato gli effetti protettivi rispetto all’ipertrigliceridemia ottenuti mediante la supplementazione con succo di azuki, ottenendo risultati positivi.
Per approfondire:
La ricetta è tratta da: Umberto Veronesi e Mario Pappagallo – Verso la scelta vegetariana - il tumore si previene anche a tavola - Giunti, 2011.
Maruyama C et al. – Azuki bean juice lowers serum triglyceride concentration in healthy young women – J Clin Biochem Nutr. 2008 Jul;43(1):19-25
(Articolo scritto per La Scuola di Ancel)

domenica 15 aprile 2012

Il pane delle streghe

Illustrazione di
Gianluigi Marabotti

A partire dal 1300 si moltiplicano i racconti a proposito di una strana malattia caratterizzata da forti dolori, convulsioni e allucinazioni che solo nel 1800 è stata attribuita ad un tipo di
avvelenamento alimentare.  Le popolazioni colpite avevano in comune sostanzialmente due cose: l’alimentazione (a base di pane di segale) e il clima (estati umide precedute da inverni freddissimi).
Partendo da pochi indizi razionali alcuni storici hanno proposto una intrigante teoria alimentare (purtroppo difficilmente verificabile) come causa di misteriosi fenomeni del passato, ad esempio quello della stregoneria. Le streghe quindi potrebbero essere state tranquille massaie bruciate al rogo per un tragico equivoco alimentare, “colpevoli” solo di aver ecceduto con i carboidrati.
Ma vediamo più da vicino cosa ha fomentato questa teoria.
La Segale cornuta è una malattia tipica dei cereali ed è causata da un fungo chiamato Claviceps purpurea. Questo parassita colpisce in particolare la Segale (Secale cereale) formando una massa nero-violacea simile a un chicco, chiamato sclerozio, che resta fissato alla Segale per tutto l’inverno. In primavera compaiono sullo sclerozio delle escrescenze simili a chiodini nella cui capocchia sono contenute le spore che, trasportate dal vento, saranno in grado di riprodurre il ciclo vegetativo.  Geograficamente questa malattia dei cereali è tipica di regioni con inverni molto freddi che indeboliscono le spighe, creando le condizioni ideali per lo sviluppo dei funghi tossici.
La Segale cornuta è portatrice di principi attivi molto violenti come alcaloidi e amine (istamina, tiramina, coline, betaina, trimetilamina, ergotamina) e quindi l’uso dei preparati a base di Claviceps purpurea è di strettissima competenza medica, sotto forma di farmaci preparati industrialmente in modo che possano essere rigorosamente standardizzati.
L’uso prolungato di farine, o di pani, nelle quali era inavvertitamente macinato questo fungo ha dato, nei secoli passati, gravi forme di intossicazione che hanno causato la morte di migliaia di persone già indebolite da condizioni di vita stentate. La malattia da accumulo di tossine di Segale cornuta è nota con il nome di ergotismo ed era caratterizzata da insopportabili bruciori agli arti con successiva cancrena; nel Medioevo, periodo di massima diffusione, era nota come fuoco di Sant’Antonio. La denominazione comune a quella dell’infezione virale da Herpes zoster è dovuta alla similitudine della sintomatologia principale rappresentata  dall’intenso bruciore della zona del corpo interessata.
I funghi e le muffe parassiti dei cereali sono killer silenziosi con una pericolosità reale certamente superiore a quella percepita dai consumatori. Gli effetti tossici sono variabili, e dipendono dalla quantità ingerita, dalla durata dell’esposizione e dallo stato fisiologico o patologico di chi le assume.
Per fortuna ci si può difendere attraverso attenti controlli lungo tutta la filiera alimentare, in modo che non siano più in prima pagina notizie di carichi di cereali sequestrati nei porti o di interi raccolti di paprika contaminata.
Per fortuna in Italia, e in generale in tutti i paesi dove l’agricoltura è sufficientemente evoluta, la Segale cornuta è stata debellata grazie ad opportuni trattamenti fungicidi e ad un corretto stoccaggio dei raccolti (i preparati farmaceutici sono ottenuti da coltivazioni infettate artificialmente).
Via libera dunque alla fantasia con ricette a base di farina di segale, che dal punto di vista nutrizionale si avvicina molto al frumento integrale per il contenuto di proteine, fibre e sali minerali.
P.H. Raven, R.F. Evert, S.E. Eichorn – Biologia delle piante - Zanichelli, 1990.

(Articolo scritto per La Scuola di Ancel)

mercoledì 11 aprile 2012

Tutta indivia!

Cichorium endivia - Tratta da Wikimedia Commons
L’indivia (Cichorium endivia) è una pianta coltivata che appartiene alla famiglia delle Asteraceae. Tipicamente sviluppa una rosetta di foglie raccolte in un ampio cespo. Fin dall’antichità è apprezzata per la sua versatilità e per le sue proprietà rinfrescanti, depurative e diuretiche.

Se ne possono distinguere due gruppi: le indivie ricce (Cichorium endivia var. crispum) e le scarole (Cichorium endivia var. latifolium). Le prime hanno cespi voluminosi con foglie crespate e margini molto frastagliati; le scarole invece hanno foglie più larghe, meno crespate e con margini più o meno dentellati.

Dal banco del mercato dovremo scegliere i cespi con foglie fresche, croccanti, consistenti e dal colore vivace, ancora bianchi o appena rosati nel punto di taglio. Faremo invece attenzione ad evitare i cespi con il bordo di taglio annerito e con le foglie anche solo parzialmente appassite.
Al momento del consumo scarteremo le foglie più esterne e quelle rovinate, lavando le restanti con acqua fresca e potabile.

Non è indicata per il congelamento ma, una volta acquistata, si può conservare nel cassetto della verdura per 4/5 giorni ben protetta con carta assorbente da cucina; se invece la conserviamo cotta può durare anche fino a 6 giorni.

Si può mangiare cruda o cotta al vapore, come contorno o come ingrediente di torte salate o primi piatti. Se si amano i gusti un po’ amari, basterà non eliminare completamente la base del cespo e utilizzarla nella preparazioni.

L’insalata indivia è ricca di fibre (importanti per il loro potere saziante e per le funzioni intestinali), ferro, calcio, potassio e antiossidanti (in particolare carotenoidi). L’apporto calorico è bassissimo, solo 15 Kcal per 100g di prodotto. Importante è anche il contenuto di vitamine del gruppo B tra cui l’acido folico. Ecco una buona notizia per le future mamme: 30 Kcal di indivia (circa 200g) coprono l’intero fabbisogno giornaliero di questa importante vitamina.
Composizione chimica (per 100 g di parte edibile):
  • Acqua 93,0 g
  • Proteine 0,9 g
  • Lipidi 0,3 g
  • Carboidrati 2,7 g
  • Fibra totale 1,6 g (di cui insolubile 1,4 g)
  • Sodio 10 mg
  • Potassio 380 mg
  • Ferro 1,7 mg
  • Calcio 93 mg
  • Fosforo 31 mg
  • Vitamina A retinolo eq. 213 µg
  • Vitamina C 35 mg
Ecco una ricetta vegetariana, molto esotica e saporita:
  • 400 g di broccoli
  • 2 carote medie
  • 1 cespo di indivia
  • 2 cucchiai di salsa tamari (una salsa di soia molto saporita)
  • 1 cucchiaio di maizena
  • 1 cucchiaio di mirin (una sorta di sakè dolce giapponese da cucina, ricco di enzimi)
  • 1 cucchiaio di malto di riso
  • 1 cucchiaio di tahin (crema di semi di sesamo tipica del mondo arabo)
  • 10 olive nere
  • Un ciuffo di basilico fresco
  • Sale marino q.b.
  • 4 cucchiai di olio extra vergine di oliva
La preparazione è semplice ma necessita di un tegame particolare di tradizione orientale ormai largamente diffuso anche in Italia, il wok.
Dopo aver lavato bene le verdure (broccoli, carote e indivia) tagliatele a piccoli pezzi e mettete tutto in una ciotola. Aggiungete 2 cucchiai di olio, il tamari, la maizena e quindi mescolate. Lasciate riposare in frigorifero per 20 minuti.
Versate nel wok i restanti 2 cucchiai di olio, scaldatelo delicatamente e fate saltare le verdure poco alla volta. Appena diventano croccanti, dopo 2/3 minuti, mettetele in un piatto. Quando saranno tutte cotte, rimettetele tutte nel wok e fate scaldare per circa un minuto aggiungendo il mirin e il malto lasciando sfumare per un altro minuto ancora.
Spegnete il fuoco, unite mescolando il tahin, le olive tagliate a rondelle e servite molto caldo, spolverizzando con basilico tritato fresco.

Bibliografia:
(Articolo scritto per La Scuola di Ancel)

lunedì 9 aprile 2012

Pomodori verdi fritti: un delizioso libroricetta


Affettare quattro bei pomodori verdi e passarli nell’uovo sbattuto e nel pangrattato. Friggerli in olio extravergine di oliva fino a quando non saranno coloriti da entrambi i lati. Servirli caldissimi!

Ho un po' modificato la ricetta del libro, troppo in stile americano … La frittura veniva fatta con grasso di pancetta che poi era utilizzato anche per fare una salsa con cui accompagnare i pomodori.

Il libro resta uno dei miei preferiti, delizioso ed ironico come tutti i libri della Flagg. Buon appetito e buona lettura!

Fannie Flagg - Pomodori verdi fritti al caffè di Whistle Stop -  BUR Biblioteca Universale Rizzoli 2000

(Articolo scritto per La Scuola di Ancel)

venerdì 6 aprile 2012

Educazione alimentare nella insufficienza renale cronica

Con grande onore presento il progetto "Educazione alimentare nella insufficienza renale cronica". L'ambulatorio, un fiore all'occhiello della UO di Nefrologia e Dialisi dell'Ospedale di Esine (che non ringrazierò mai abbastanza per la stima e la fiducia), si svolge di giovedì pomeriggio nell'ambulatorio 1D. 

Per informazioni

  • E-mail: laura.imperadori@gmail.com
  • Tel: 328/0915003

(Giornale di Brescia - 17/03/12)





































giovedì 5 aprile 2012

ViverSano - Urca la mela Annurca!

Illustrazione di Gianluigi Marabotti
La mela Annurca, definita come la “regina delle mele”, è un prodotto I.G.P. (Indicazione Geografica Protetta) tipico della Campania; si può dire sia l'unica mela con origini meridionali.
Si tratta di una varietà molto antica; ne sono stati trovati cenni storici negli scavi di Pompei ed Ercolano.

È piccola (circa 100g) e rossa, con una polpa soda e croccante. Emana un profumo molto intenso che sottolinea il sapore ricco e piacevolmente acidulo.

Viene raccolta acerba nel mese di ottobre e portata a maturazione in appositi melai, dove “arrossisce” nel giro di un mese. La necessità di questa fase di lavorazione la rende un prodotto più costoso rispetto alle altre varietà e quindi ha una collocazione un po' di nicchia nel mercato ortofrutticolo. Una volta acquistate, come tutte le mele in generale, vanno conservate a temperatura ambiente, evitando il frigorifero.

Le sue proprietà sono notevoli: è ricca di vitamine, sali minerali e fibre; contiene una buona quantità di catechina, epicatechina ed acido clorogenico.
La ricchezza di polifenoli ha stimolato alcuni ricercatori ad approfondirne le proprietà antitumorali, partendo dall'osservazione che nel sud Italia si riscontra una minor incidenza di carcinoma del colon retto (CRC) rispetto al resto della popolazione occidentale.
I polifenoli estratti dalla mela Annurca sono stati testati in vitro e ne è stata dimostrata la tossicità nei confronti delle cellule tumorali.

Accanto ai succhi freschi, di notevole valore nutritivo, esistono innumerevoli possibilità di utilizzare queste mele in cucina e sfruttarne così le qualità preventive.
Molti sono abituati ad utilizzare la frutta come uno spuntino, ma nulla vieta di collocarla al posto di uno stuzzicante antipasto. In questo modo ne sfrutteremo appieno le qualità, senza incorrere nei fastidiosi gonfiori che a volte seguono al consumo di frutta alla fine del pasto.

Ingredienti per l'antipasto alle mele Annurca:
  • mele Annurca tagliate a bastoncino
  • carote tagliate a julienne non troppo sottili
  • insalata verde (meglio se croccante)
  • noci
Tutti gli ingredienti sono disposti su un piatto da portata e conditi generosamente con limone e olio extra vergine di oliva.

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(Ringrazio la Dott.ssa Tiziana Stallone e Gianluigi Marabotti)

lunedì 2 aprile 2012

Tutto è relativo, anche la frittura!

Illustrazione di
Gianluigi Marabotti
Come si legge in Fast Food Nation, sebbene la ricetta delle pommes frites fosse stata importata negli Stati Uniti da Thomas Jefferson nel 1802, le patatine fritte diventarono popolari solo negli anni ’20, diffuse dai veterani della Prima guerra mondiale; erano buone, potevano essere gustate senza posate anche mentre si era alla guida. La grande diffusione però avvenne con le grandi catene di fast food e oggi le patatine fritte sono diventate il piatto pronto più venduto negli USA. Così, se nel 1960 l’americano medio consumava circa 36 chilogrammi di patate fresche e 2 di patate fritte, oggi lo stesso americano consuma 22 chilogrammi di patate fresche e 13 di patatine fritte (il 90% delle quali acquistate nei fast food).

Ma i fritti sono buoni o fanno male? Intorno a questa tecnica di cottura ci sono da sempre una serie di pregiudizi molto radicati che vale la pena analizzare in modo scientifico. La relatività annunciata dal titolo sta infatti in come e dove si frigge, con quali oli, a quali temperature e con quale frequenza si assumono le pietanze fritte.

Gli oli e i grassi sottoposti ad alte temperature subiscono una complessa serie di trasformazioni della loro composizione chimica con formazione di composti che incidono sul valore nutrizionale, sulle caratteristiche organolettiche e sulla salute. Per osservare queste modificazioni non serve andare in laboratorio perché saltano subito all’occhio (e al naso): il colore diventa più scuro, aumenta la viscosità, si forma della schiuma e si sviluppa un caratteristico odore di fritto che, entro certi limiti, è desiderabile ed attraente. La causa di tutto ciò è l’ossidazione degli acidi grassi che porta alla produzione di oltre 400 composti volatili e non.

Proprio per l’importanza che riveste l’argomento, il Ministero della Salute ha scritto una Circolare (n. 1 del 11 gennaio 1991) in cui elenca delle raccomandazioni per l’uso degli oli e dei grassi per frittura. Di seguito ne spiego brevemente alcune:

1) Utilizzare solo oli idonei. In testa c’è ovviamente l’olio di oliva che rappresenta il giusto compromesso tra stabilità e salute, ricco inoltre di antiossidanti naturali (i tocoferoli). Il fatto che conferisca alle pietanze un aroma più deciso, non significa certo che la frittura è più pesante! Non sono adatti invece gli oli di girasole, di mais e di soia, per il loro alto contenuto di acidi grassi più “predisposti” all’irrancidimento.

2) L’olio deve essere ben caldo e abbondante, in modo che la temperatura non si abbassi troppo quando si aggiungono i cibi e che si formi subito la crosta a protezione del prodotto dalla disidratazione e dall’eccessivo assorbimento di olio. L’immersione inoltre deve essere completa, per ridurre le ossidazioni ad opera dell’ossigeno atmosferico.

3) Per ogni cibo esiste una temperatura ottimale che rende il prodotto croccante in superficie e morbido e ben cotto all’interno. Mantenersi comunque sempre al di sotto del punto di fumo.

4) Scolare bene il fritto, in quanto la maggior parte dell’olio viene assorbito proprio quando la cottura è terminata. Per inciso, maggiore è il rapporto superficie/volume e più “unto” è il risultato; così le patatine a bastoncino contengono una percentuale di olio minore (dal 5 al 13%) rispetto alle tradizionali chips (dal 35 al 40%).

5) I recipienti usati devono essere di acciaio inox, in quanto la presenza di tracce di metalli favorisce i processi degradativi.

6) Cambiare con frequenza l’olio e non ricolmare quello usato. Ricordiamoci che buona parte
viene mangiato come parte integrante del manicaretto.

7) Non salare i cibi quando sono ancora sopra l’olio di cottura in quanto si favorirebbe l’irrancidimento.

Impanare (o patellare) si o no? Dipende. La ricopertura dell’alimento è utile quando questo è povero di amido e proteine e ricco di acqua (ad esempio le zucchine o i pomodori) per formare una croccante e gustosa crosta e, volendo, anche per aggiungere un tocco aromatico in più.

La frittura migliore e più sicura rimane comunque quella casalinga ma ricordiamoci che, come disse Paracelso, “è la dose che fa il veleno”.

Infine una curiosità: sebbene la più nota catena di fast food non voglia rivelare la ricetta segreta degli aromi aggiunti alle sue patatine fritte, ha ammesso (rispondendo alle domande del Vegetarian Journal) che parte del caratteristico gusto è ottenuto grazie a prodotti di origine animale.

Eric Schlosser, Fast Food Nation, Il Saggiatore Tascabili 2001

Giuseppe Capano e Luigi Caricato, Friggere bene, Tecniche nuove 2009

Appunti del corso: Tecnologie della ristorazione, Corso di laurea in Scienze e tecnologie della
ristorazione, Facoltà di Agraria, Università degli Studi di Milano.

(Articolo scritto per La Scuola di Ancel)

domenica 1 aprile 2012

Alimentare, Watson!

Illustrazione di
Gianluigi Marabotti
Si tratta di un gioco per bambini dai 4 anni in su che fa riposare gli occhi e lavorare mani, naso e cervello.

Servono: un conduttore del gioco, un tovagliolo per bendare gli occhi dei piccoli giocatori e tanti tipi di frutta e verdura.

Come si gioca?

È semplicissimo! Il conduttore consegna ai giocatori bendati un ortaggio o un frutto. Vince chi per primo indovina di cosa si tratta, prenotandosi urlando: Watson!

Le regole del gioco sono le seguenti: si può annusare e toccare, ma non assaggiare un pezzo del gioco.

Alla fine si può unire l’utile al dilettevole, mangiandosi in compagnia una bella macedonia o una gustosa insalata.

Patrizia Bollo, Giochiamo in cucina, Laboratorio Salani 2011

(Articolo scritto per La Scuola di Ancel)